Baite ai Prei, alpeggio a mezz’ora di cammino dalla Colma, di cui si vede il profilo di una baita

Gli alpeggi:   introduzione

     Un elemento di fondamentale importanza per la sopravvivenza di queste popolazioni di montagna è stata l’erba, intesa come pascolo e come fieno, all’interno di un’economia che trovava nella pastorizia e nell’allevamento l’altra importante fonte di sostentamento per questi villaggi di montagna.
     Dalla primavera fino all’autunno avanzato la transumanza animava gli alpeggi secondo ritmi e tempi che di anno in anno si ripetevano immutati; tale consuetudine si è mantenuta fino a pochi decenni fa, fissandosi nei racconti delle persone incontrate nel corso di questa ricerca.
     In primavera, dopo la metà di aprile, si saliva sugli alpeggi bassi, compresi tra i 700 e i 1000 metri, fino al 15 giugno. Il giorno di San Bernardo indicava il momento di raggiungere l'alpeggio di alta quota che arrivava fino ai 1800 metri di altezza, dove si rimaneva tutta l’estate. L’8 settembre, giorno della festa di Santa Maria, si scendeva per celebrare la festa patronale di Viganella. Quindi si tornava sugli alpeggi intermedi fino all’inizio della vendemmia. Gli alpeggi si svuotavano e le famiglie si riunivano tutte al paese. Le mucche erano portate a pascolare nei prati intorno agli abitati, rispettando le proprietà private. Ai primi di novembre, periodo a partire dal quale per circa tre mesi il sole rimane nascosto dall’alto crinale della montagna, venivano chiuse nelle stalle fino alla primavera successiva.
     Gli alpeggi “consentivano, in funzione della loro ricchezza, una abbreviazione del periodo di stabulazione nel fondovalle ed un contributo, più o meno sostanziale, alle scorte foraggere invernali”(1).
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     Le donne erano impegnate quotidianamente nell’approvvigionamento di erba (fa u ras) per non intaccare le scorte di fieno quando il bestiame, a causa del cattivo tempo, non poteva uscire al pascolo. La tagliavano con il falcetto (mèula) e riempivano il gerlo a stecche rade (sciųiròŋ). Ascoltando i racconti si comprende come l’erba rappresentasse veramente una ricchezza. Si andava a cercarla anche nei luoghi più ripidi e scoscesi, ovunque se ne potesse trovare. Era un lavoro duro, ma soprattutto pericoloso. In ogni momento si rischiava di scivolare, in bilico su precipizi (catapìc), con i gerli sulle spalle che diventavano sempre più carichi e pesanti. Particolarmente significativa è la testimonianza di Edoardo:       

“I nos mom i navan a fa ul ras in post ch’į éran propi… si pai catapic! E s’at squarivi t nasivi a vota e… addio! E ‘ndura per no mi squarà t sei que ch’i favan? I travan fo i pzöi e i bagnavan da sot. S’u gh era in quai rial bon, e s’u gh era migna i pisavan e i bagnavan asuì i pzöi…” (2)
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     Tutto questo sistema elaborato e consolidato in secoli di pratica e di esperienza ha iniziato nei decenni scorsi un rapido e inesorabile declino con il crollo dell’allevamento e l’abbandono degli alpeggi condannati ad un irreversibile degrado. In molti casi i sentieri, che costituivano una fitta rete di collegamento tra gli alpeggi, sono scomparsi; i prati, non più falciati, hanno lasciato il posto ai boschi e ai rovi (carnér) che hanno invaso campi e pascoli; le stalle e le baite stanno crollando. E’ un patrimonio di cultura alpina abbandonato a se stesso e la montagna, lentamente ma inesorabilmente, se lo sta riprendendo e nascondendo sotto di sé.
(segue...)

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(1) L’economia agraria alpina, in AA.VV., Le Alpi e l’Europa, Laterza, Bari, 1975, vol. 2, pag. 256.
2) “Le nostre mamme andavano a tagliar erba in posti che erano proprio… su per le rocce! E se scivolavi, rotolavi giù e… addio! E allora per     non scivolare sai cosa facevano? Toglievano le pantofole e le bagnavano di sotto. Se c’era un rivo, bene, e se non c’era urinavano e     bagnavano così le pantofole…”